DIY Materials e innovazione esperienziale

I biomateriali che cambiano i processi produttivi del design

Team multidisciplinari di scienziatз e designer indagano le infinite potenzialità di materiali e processi, per progettare qualcosa che sia compatibile con la vita
con Valentina Rognoli
Uscita di Febbraio 2022 Condividi su

Partiamo dalle basi. Cosa sono i biomateriali e quali sono oggi i campi di applicazione di questi prodotti?

Nell’ambito del design il termine biomateriale genera confusione, perché è un’espressione che è stata coniata e utilizzata in primis nell'ambito medico, dove con biomateriali si intende una sostanza adatta a interagire con sistemi biologici a scopo medico. Nel design il significato di biomateriale è un po’ vago: tendenzialmente ci si riferisce a una sostanza che è prodotta naturalmente, ad esempio che  deriva da piante e insetti, o che può essere usata come materiale per realizzare prodotti compatibili con la vita. In economia circolare e bioeconomia, i biomateriali sono da intendersi quelli costituiti da risorse biologiche. Mettendo insieme queste definizioni, possiamo dire che nel design si parla più spesso di materiali bio fabbricati e/o di materiali bio based: per materiali bio fabbricati si intende quelli prodotti da cellule viventi e microrganismi come batteri, lieviti, micelio, alghe, mentre i materiali bio based sono tutti quelli che derivano da materia prima organica, proveniente dal mondo vegetale o animale.
Con Barbara Pollini, una dottoranda che supervisiono, stiamo portando avanti una ricerca dal titolo Healing Materialities, che indaga scenari materici basati su processi rigenerativi, includendo materiali vivi e materiali a supporto della vita. Un filone di indagine all’interno di questa ricerca sono i materiali bioricettivi, ovvero materiali che hanno l’abilità di essere facilmente colonizzati da forme di vita. In questo momento stiamo facendo delle sperimentazioni con muschi e licheni che possano ibridarsi con superfici progettate a questo scopo; questo è un esempio pratico di come si possa coniugare la ricerca teorica e la ricerca pratica, dove si fa sperimentazione.
Rispetto ai campi di applicazione di questi materiali, siamo ancora in piena fase di studio e le percentuali di applicazione sono basse. Fondamentalmente, vengono studiati laddove si vogliono sostituire tutti i materiali di origine fossile e che hanno una vita breve. L'applicazione può andare dall’arredo al tessile, con un grande focus sul packaging, settore in cui si stanno cercando materiali sostitutivi perchè quelli attuali hanno un forte impatto sulle risorse e sull'ambiente. Un campo in particolare che sta facendo tantissima sperimentazione - e che per sua natura è un ambito dove si ha tanta libertà, sia creativa sia di investimenti - è quello della moda. Il settore della moda è sempre stato caratterizzato dall'essere pionieristico, sempre alla ricerca dell'innovazione sia tecnica che estetica, incluse le soluzioni più sostenibili e circolari che oggi rappresentano il trend.

Leggendo in rete, le espressioni biodesign e biomateriali compaiono spesso all’interno di discorsi sulla sostenibilità, intesa sia in senso, ovviamente, ambientale, ma in realtà anche nell’accezione di innovazione sociale. Perchè il biodesign rappresenta una nuova frontiera in questo senso?

I materiali bio fabbricati sono coerenti con l’approccio del biodesign. Entrambi sono caratterizzati dal creare una collaborazione tra tante professionalità, in cui il designer rimane una figura centrale, ma non l'unica. È parte di un team in cui ci sono competenze derivanti dalla biologia, dalla scienza dei materiali, dalla scienza della vita e altre ancora. Si lavora in squadre multidisciplinari e transdisciplinari per affrontare la sfida di progettare qualcosa che sia compatibile con la vita, in un'ottica di transizione ecologica. La sostenibilità ambientale si può raggiungere in diversi modi, prediligendo materiali più o meno circolari, che possano usare risorse rinnovabili, che evitino lo sfruttamento di risorse non rinnovabili, lo sfruttamento del suolo e lo sfruttamento del lavoro. Qui entra in gioco anche la sostenibilità sociale: la fabbricazione di materiali bio based può favorire, in determinate aree del mondo, l'uso di risorse locali e un approccio low tech, che non richiede grossi investimenti per macchinari, strumenti e know how, ma prevede un lavoro basato sulla condivisione. Da un punto di vista sociale si punta alla valorizzazione del contesto e delle risorse locali, senza incidere su altri - o dipendere da altri - per l'approvvigionamento delle materie prime.

Una curiosità: conosci alcuni progetti di biodesign che in Italia stanno lavorando proprio in questa direzione, che attraverso il biodesign fanno rigenerazione?

Uno tra tutti è l'azienda che si chiama Mogu, a Varese, che sta utilizzando il micelio sia per applicazioni concrete (pannelli acustici, pavimentazioni) sia per studiare le potenzialità di questo materiale, attraverso un ufficio di ricerca e sviluppo che lavora su progetti europei. A Bologna Bio-on fa materiali bio based, derivanti da scarti organici e batteri, e in Veneto Mixcycling lavora gli scarti per produrre compositi bio based in pellet, che poi vengono immessi in altri cicli produttivi. Tante aziende stanno cominciando questo percorso, a oggi quello che risulta difficile è immaginare uno skill up industriale: come negli anni trenta con la produzione delle plastiche oil based sembrava incredibile riuscire a fare un salto industriale, se seguiamo la stessa scala temporale ci vorrà del tempo, ma potremmo vivere presto questo sviluppo.

Il laboratorio di ricerca che dirigi si chiama “Materials Experience Lab”. La specificità di approccio del vostro gruppo di ricerca è il focus sulla componente esperienziale dei materiali. In modo concreto, che significa? Quali ricerche state portando avanti e a che domande volete rispondere?

Innanzitutto, il termine Lab, nelle nostre intenzioni, indica una sorta di piattaforma, che è nata dalla mia collaborazione con Elvin Karana, una professoressa di TU Delft, in Olanda. Da vent’anni collaboriamo per fare emergere il ruolo fondamentali dei materiali nel processo di progettazione. Erano i primi anni 2000 ed ero impegnata nella mia tesi di dottorato, focalizzata sui materiali per il design, quando ho incontrato questa ricercatrice a una conferenza, ai tempi in cui Internet non aveva una diffusione di massa e le informazioni si potevano prendere solo dal vivo. Da lì abbiamo sempre trovato la maniera di collaborare, finchè, quasi dieci anni fa, abbiamo deciso di fondare il Materials Experience Lab con l’obiettivo di dare un supporto e un collegamento a tutte le ricerche che facciamo sia singolarmente, con le nostre istituzioni, Politecnico di Milano e TUDelft, sia in collaborazione (tesi di dottorato, collaborazioni su un’aziende, scambio di risorse), per creare dei circoli virtuosi nel mondo dei materiali.

Il Materials Experience è un framework a cui abbiamo lavorato insieme, basato sulla dimensione esperienziale: abbiamo individuato quattro livelli (sensoriale, emotivo, relativo al significato e relativo alla performance), che semplificano e restituiscono il concetto di esperienza.

Non si tratta di livelli davvero isolati, anzi sono molto interconnessi: la dimensione sensoriale è connessa all'emozione che viene suscitata e l'emozione è connessa a sua volta al significato che si attribuisce a quel determinato materiale, e a sua volta tutto questo influenza il comportamento e l’interazione dell’utente con l’oggetto.
(Karana E., Pedgley O., Rognoli V., (2014). Materials Experience: Fundamentals of Materials and Design, 1st Ed., Butterworth-Heinemann: Elsevier, UK; Pedgley O., Rognoli V., Karana E. (2021). Materials Experience: Expanding Territories of Materials and Design, 1st Ed., Butterworth-Heinemann: Elsevier, UK).
Come avviene spesso nella dimensione accademica, anche il Materials Experience è uno studio teorico che si crea sulla base dell'osservazione della pratica. Il concetto relativo all'esperienza è venuto fuori osservando il contesto e traducendolo in uno schema, che poi serve per andare avanti e progettare.
Una delle ricerche più importanti su cui ci stiamo concentrando da qualche anno è quella dei Do It Yourself Materials (DIY-Materials, https://www.diy-materials.com/), in cui abbiamo usato la lente della Materials Experience per osservare e interpretare cosa sta succedendo nel mondo del design e quali sono le esperienze materiche significative. Circa 8 anni fa, abbiamo notato che i designer avevano cominciato a progettare i propri materiali: abbiamo così iniziato un lavoro di ricerca e raccolta di tutti i casi studio esistenti. Questa ricerca ha dato vita ad un’altra investigazione di dottorato condotta da Camilo Ayala Garcia. Il fenomeno dei DIY-Materials è interessante non tanto per l'autoproduzione in sé, perché si arrivano a produrre dei prototipi che rimangono a un livello molto artigianale e nulla di più, ma soprattutto perché il designer ha potuto rimettere le mani in pasta, avvicinarsi al fare artigiano che consente un contatto diretto e una conoscenza intima dei propri materiali al fine di generare idee. Dopo questa fase, i draft materici vanno consegnati a un team multidisciplinare che lavora ulteriormente al loro sviluppo, affinchè possano essere scalati a una produzione industriale, che a quel punto non è più una produzione industriale tradizionale, ma si spera più coerente con la necessaria transizione ecologica. Altra caratteristica dei DIY-Materials è che nascono dalla volontà di trovare delle alternative a materiali tradizionali, magari impattanti, partendo principalmente da materie prime di natura organica e anche usando scarti e rifiuti. I DIY-Materials comprendono anche i materiali biofabbricati perché anche nel loro sviluppo c’è tanta sperimentazione e l’autoproduzione raggiunge livelli estremi, perché è l’organismo stesso che cresce e il designer diventa quasi uno spettatore o un facilitatore del processo.

Abbiamo conosciuto il tuo lavoro di ricerca attraverso la designer Giulia Tomasello. Da dove nasce la vostra collaborazione? Leggo che, come lei, adotti l’approccio Do It Yourself: anche tu coltivi i batteri in casa?

Giulia può benissimo essere annoverata tra quei designer che venivano osservati perché stavano facendo dei lavori interessanti in questa direzione. La sua ricerca era uno dei casi studio che abbiamo raccolto per la collezione dei DIY-Materials. Anche questa ricerca ci ha dato la giusta motivazione per capire che ci stavamo muovendo in un campo in cui c’era grande fermento. Personalmente, ho conosciuto Giulia attraverso Stefano Parisi, un altro mio collaboratore, con cui Giulia ha curato un workshop sui materiali e l’approccio DIY per il corso di Fashion Design al Politecnico.
Da quell’occasione non ho avuto più modo di collaborare con lei, ma quando mi ha annunciato la realizzazione di Biofilie ero particolarmente entusiasta, sia per la grande attenzione al tema dei biomateriali, sia, soprattutto, per la location, perchè è inaspettato trovare progetti di questo genere in un territorio come quello marchigiano. Finalmente anche qui si è arrivati ad accendere una luce su questi temi per me fondamentali per il nostro futuro e che sono in grado di ispirarsi al contesto nazionale (in primis quello che solitamente succede a Milano) e al panorama internazionale.

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Valentina Rognoli

Valentina Rognoli

Valentina Rognoli è Professore Associato nel Dipartimento di Design della Scuola di Design del Politecnico di Milano. Qui ha studiato e iniziato la sua carriera accademica incentrata sui Materiali per il Design. È stata una pioniera in questo campo, iniziando quasi vent'anni fa e stabilendo una competenza riconosciuta a livello internazionale sull'argomento sia nella ricerca che nella didattica. Per il suo dottorato di ricerca ha intrapreso uno studio unico e innovativo su un tema chiave ma poco trattato che è la dimensione espressivo-sensoriale dei materiali del Design e dei loro aspetti esperienziali. Questa ricerca ha fortemente influenzato le metodologie didattiche sui materiali della Scuola di Design.

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